Yoga, ma cos’è la tanto sbandierata consapevolezza? Intervento di Michele Lotter

Michele Lotter Riceviamo e pubblichiamo un intervento di Michele Lotter, autorevole esponente della RedGFU, Gelong*, discepolo del maestro realizzato José Marcelli Noli.

La Redazione

La cosa peggiore dei luoghi comuni in genere è che, essendo di dominio pubblico, si finisce poi con l’assumere che siano veri, senza essersi minimamente chiesti se realmente lo siano oppure no. Invece, qualunque ricercatore che si rispetti (sia quello delle scienze sperimentali, sia quello impegnato in un percorso interiore, nel nostro caso lo yogi) dovrebbe avere come compito prioritario quello di verificare le asserzioni, mettere in luce i luoghi comuni, distinguere la verità dalla credenza.

Uno dei luoghi comuni, che viene ripetuto continuamente e rimbalza di rivista in rivista, di sito in sito, di lezione in lezione, è che lo yoga sia tout court una disciplina che “permette di acquisire maggior coscienza di sé” (o anche, per usare un termine più “in”, “consapevolezza”).

Ora, confidando nell’onestà della Tradizione (un po’ di fiducia non guasta), il problema non consiste tanto nello stabilire se lo yoga sia effettivamente un mezzo per sviluppare coscienza, ma piuttosto nel capire come e soprattutto quando lo sia…

Qui possiamo già rispondere con certezza di no. Vi sono infiniti esempi di persone che praticano yoga da anni (e spesso con notevole regolarità) ma che non sembrano essere usciti dalle loro rigidità fisiche e interiori, dai loro pregiudizi, dai loro problemi relazionali con sé stessi, con gli altri, con la realtà. Non basta praticare asana o pranayama per poter affermare di aver sviluppato consapevolezza. Neppure basta edonisticamente “sentirsi meglio” o spesso credere o affermare di “sentirsi meglio” perché sia realmente così. Il diploma di “acquisita coscienza” non ce lo possiamo consegnare da noi stessi. Non siamo noi i più obiettivi valutatori di noi stessi. E magari gli altri avrebbero qualcosa da ridire …

Secondo un noto detto di Gurdjieff, “la coscienza non si sviluppa incoscientemente”. Cosa significa? Che il progresso interiore non è gratuito ma richiede un’applicazione costante, un impegno attentivo personale, una dedizione infinita. E da qui, il paradosso: per sviluppare coscienza bisogna essere coscienti!

José Marcelli, il mio indimenticabile Maestro, ripeteva spesso che “i pesi si elevano per volontà e cadono per gravità”. La fisica ci insegna che, per compiere un lavoro, si deve sempre tener in conto un dispendio di energia. Nulla avviene gratuitamente. L’acquisire consapevolezza non è esente da questa regola.

Ciò detto, per cominciare, cosa intendiamo per coscienza?

In realtà, non è possibile a tutt’oggi disporre di una definizione unica ed esaustiva di coscienza. Quando parliamo di coscienza ci riferiamo al suo significato in ambito neurofisiologico? Oppure a quello in ambito psicologico? O ancora a quello filosofico? Le stesse neuroscienze, che sono la disciplina più alla moda e più di sintesi del momento, faticano a spiegare cosa sia effettivamente la coscienza. Per non parlare della consapevolezza che, nell’intendimento comune, in quanto attributo particolarmente personale, “mio”, sembra essere un’entità “fai da te”, del tutto autoreferenziale e in questo anch’essa terribilmente new age.

Questa benedetta consapevolezza sembra quindi essere onnicomprensiva perché va dalla conoscenza esperienziale delle mie articolazioni e dei miei visceri interni, a quella delle mie funzioni, passando per quella delle mie emozioni, dei miei pensieri ed estendendosi a dismisura, fuori dello spazio e del tempo, arrivare fino alla comprensione del Tutto (la famigerata, ultra gettonata e ahimè più ignota della Primula Rossa, “coscienza cosmica”)…

Ma spingiamoci all’interno del luogo comune, come un tarlo nella gamba di una sedia e, accantonate per il momento le problematiche cosmiche, parliamo della cosa apparentemente più facile e alla portata di tutti: la coscienza del proprio corpo.

Qui nessuno si permetterebbe di obiettare sul fatto che lo yoga aumenti la consapevolezza (e dàje!) del proprio corpo. Sarebbe una vera bestemmia affermare il contrario. Il problema è che nessuno sa spiegare come e perché avvenga.

Ora, che il corpo abbia una certa consapevolezza di sé, che si formi un’immagine di sé (quello che gli psicologi chiamano da tempo “schema corporeo”) e che ci tenga a proiettarla, è un dato di fatto. Purtroppo però nessuno sembra accorgersi che questa “consapevolezza corporea” non ha per lo più niente a che vedere con la coscienza individuale.

Il fatto è che buona parte delle funzioni corporee non è sotto il controllo della coscienza, o lo è assai poco, essendo esse delegate a sistemi sottocorticali che funzionano per conto loro.

Facciamo qualche esempio concreto. Quando al mattino andiamo a lavorare e ci mettiamo in cammino, strada facendo la nostra mente girovaga tra i mille pensieri quotidiani. Le nostre gambe “vanno da sole” e la funzione della marcia è quasi del tutto indipendente dalla coscienza, a meno che, improvvisamente un incauto ciclista ci tagli la strada all’improvviso, e sia necessaria una correzione della nostra rotta. Oppure, quando sto seduto al computer e sono immerso nel mio lavoro, il mio piede sinistro in modo del tutto autonomo comincia a saltellare ritmicamente e ripetitivamente. Ma non glielo ha ordinato la mia coscienza di farlo. La mia coscienza può fermarlo, spesso per poco, perché lui dopo un po’ ricomincerà ad agitarsi.

Per non parlare delle funzioni viscerali. Quanto siamo effettivamente coscienti di cosa stiano filtrando i nostri reni, di come circoli il sangue nella nostra rete capillare, di quando l’ormone tiroideo abbia colpito le sue cellule bersaglio? A malapena ci rendiamo conto ogni tanto del fatto che stiamo respirando e che il nostro cuore batta (a proposito, al ritmo di circa 70 battiti/minuto, il cuore pulsa in un anno per lo meno trentaseimilionisettecentonovantaduemila volte… Mi sapreste dire quante di queste eravate coscienti che stesse battendo?).

Una persona di buon senso potrebbe obiettare: “Cosa c’entra tutto ciò con la coscienza prodotta dalla pratica yoga? È chiaro che di queste funzioni non è necessario essere consapevoli continuamente!”. E infatti è proprio vero, non a caso non lo siamo. Però allora io chiedo: quando diciamo che praticando yoga prendiamo consapevolezza del nostro corpo, cosa stiamo intendendo? Sono solo parole, ci stiamo autoconvicendo o è vero? E quando e quanto dura la consapevolezza che abbiamo del nostro corpo, per esempio delle nostre articolazioni.

Il sistema muscolo scheletrico è stimolato continuamente dalla gravità, dalle posture che assumiamo e dai movimenti che eseguiamo. Ad ogni istante, migliaia di recettori disseminati nei muscoli, nei tendini e nelle articolazioni inviano al nostro Sistema Nervoso Centrale informazioni dettagliate su come il nostro corpo sia atteggiato nello spazio, sulla lunghezza dei muscoli, sul loro stato di contrazione, sullo stato di tensione di capsule e legamenti. Il cervello conosce tutto ciò, non solo, lo elabora e risponde inviando a sua volta messaggi alla periferia, ma… Noi, come individui, ne siamo veramente consapevoli? La risposta è: molto poco! Non a caso ci facciamo male continuamente, o per aver fatto il passo più lungo della gamba, o per esserci piegati in modo inadeguato in un momento di disattenzione (di incoscienza, sarebbe il caso di dire), o per aver forzato un’articolazione o un muscolo durante un asana, senza accorgercene. Si faccia avanti chi lo può negare!

Il dilemma autentico consiste nel fatto che non è per niente scontato trovare il punto di contatto tra la coscienza che ha il corpo di sé e la coscienza che abbiamo noi di lui.

Allora, un problema che dovrebbe porsi il praticante di yoga (che realmente abbia voglia di realizzare un lavoro consapevole) è quello di chiedersi veramente in cosa consista la consapevolezza che ha del suo corpo e fino a che grado essa sia reale o immaginaria.

A maggior ragione, un istruttore di yoga (oltre a vivere l’esperienza di cui sopra) dovrebbe sforzarsi di trovare delle strategie efficaci e diacroniche (graduate nel tempo) per facilitare l’esperienza negli allievi, in modo che essi imparino a dialogare consapevolmente, coerentemente e realmente col proprio corpo. Andrebbero quindi sviluppate una pedagogia e una didattica dello yoga.

L’esperienza profonda del corpo (per non parlare di quella delle proprie emozioni, delle proprie pulsioni, dei propri meccanismi e trappole mentali) non è una cosa vaga che si acquisisce solo perché si dice di farlo. Deve essere vissuta, compresa, elaborata e deve in qualche modo diventare un bagaglio di conoscenza trasmissibile, utile a vivere meglio. Se no resta una pia illusione.

Michele Lotter

*grado dell’Ordine di Acquarius

Aggiungi ai preferiti : Permalink.

Commenti chiusi